Nella concezione di senso comune, come in molti pazienti che si affacciano ad un percorso di psicoterapia per la prima volta esistono una serie di idee preconcette su come funziona la terapia stessa. Una di queste riguarda un’ipotetica dicotomia tra problemi a “base psicologica” e problemi a “base biologica” che se vogliamo rappresenta un po’ la versione “specialistica” della stessa dicotomia mente-corpo che permea l’intera cultura razionalista occidentale di matrice Cartesiana. Di qui deriva un concetto spesso espresso in questi termini: “Se è un problema psicologico, va bene la psicoterapia, ma se invece è un problema nel cervello, una questione di squilibrio di sostanze insomma una cosa seria, allora solo i farmaci possono fare qualcosa”. In realtà negli ultimi due decenni, grazie anche alle nuove modalità di indagine “in vivo” delle neuroscienze (PET, SPECT, fMRI, ecc.), è apparso chiaro come i processi mentali intrapsichici ed interpersonali derivino da meccanismi che avvengono a livello neuronale nel cervello e per contro come ciascuna esperienza modifichi plasticamente i substrati anatomici coinvolti. Ciò significa che ciascun cambiamento nei nostri processi psicologici si riflette in uno o più cambiamenti nel funzionamento o nelle strutture del cervello e che la psicoterapia produce modificazioni osservabili sul cervello. Ma come è possibile che le parole cambino il cervello? Alcuni sembrano ancora farsi questa domanda.
Un’interessante rassegna relativa a una ventina di studi sugli effetti della psicoterapia a livello di sistemi cerebrali è quella di Hasse Karlsson apparsa su Psychiatric Times nel 2011 dal titolo “How Psychotherapy Changes the Brain”. Il primo studio in questo senso risale addirittura al 1992. Venne al tempo comparata, su pazienti con diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo, terapia farmacologica con fluoxetina e terapia comportamentale (BT) dimostrando cambiamenti analoghi a livello di strutture cerebrali (in questo caso specificamente a livello del nucleo caudato). A partire da questo primo studio di Baxter ne sono seguiti numerosi altri con lo stesso obiettivo (si veda tabella) che sostanzialmente hanno dimostrato che la CBT (Terapia Cognitivo Comportamentale), la DBT (Terapia Dialettico-Comportamentale), la psicoterapia interpersonale e la psicoterapia psicodinamica producono modificazioni sostanziali nelle strutture cerebrali di pazienti affetti da disturbo depressivo maggiore, disturbo ossessivo compulsivo, fobia sociale, attacchi di panico, fobie specifiche, disturbo ppst traumatico da stress, e disturbo borderline di personalità (BPD).
Se la maggior parte di questi studi hanno dimostrato effetti di cambiamento a livello cerebrale analoghi alla terapia farmacologica, alcuni hanno anche evidenziato come le modifiche non sempre avvenissero a carico delle stesse strutture per la terapia farmacologica e quella psicoterapica. Ad esempio nello studio di Goldapple et.al. è stato evidenziato come per pazienti con disturbo depressivo maggiore in caso di terapia CBT le modificazioni risultassero sostanzialmente in un aumento del metabolismo dell’ippocampo e della corteccia cingolata anteriore, ed una diminuzione invece nella corteccia pre-frontale. Mentre con il trattamento farmacologico con paroxetina l’aspetto più rilevante era piuttosto un aumento del metabolismo nelle aree prefrontali ed una diminuzione nell’ippocampo e nella parte subgenuale del giro cingolato (area 25 di Brodmann). Queste differenze danno probabilmente conto delle differenze circa gli effetti a lungo termine dei due approcci terapeutici (con minori episodi di ricaduta per la psicoterapia rispetto al trattamento farmacologico).
Tab.1
Nell’ottica del terapeuta l’importanza di questi studi risiede anche e soprattutto nel valore di ritorno sulla ricerca evidence based in terapia. Forniscono infatti la possibilità di meglio comprendere i meccanismi di azione alla base di un modello terapeutico (anche rispetto a modelli differenti) in modo da poterli confrontare, modificare e migliorare alla luce dei paradigmi e delle teorie di ordine psicologico alla base di ciascun modello. Si può ipotizzare ad esempio che dietro all’efficacia della terapia cognitiva per pazienti con depressione maggiore ci sia un’azione sulla corteccia prefrontale connessa con il controllo cognitivo delle emozioni (un’azione quindi di tipo “top-down”) mentre gli antidepressivi agiscono in modo più diretto ed indiscriminato sull’amigdala coinvolta nella generazione di emozioni negative. Analoghe considerazioni possono essere fatte per i confronti fatti su pazienti con disturbo di panico (si veda Beutel e al.) per pazienti BPD (Schnell ed Herpertz) e cosi via. Se consideriamo che molti modelli terapeutici cercano di migliorare ad esempio le capacità di problem solving, le modalità di auto rappresentazione, le capacità metacognitive, la regolazione degli stati emotivi dei pazienti e che le aree cerebrali che hanno un ruolo in questi meccanismi sono numerose (si veda Frewen et.al per una rassegna) è facile intuire come la ricerca attraverso tecniche di neuroimaging possa fornire un grande valore nell’orientare lo sviluppo dei modelli terapeutici.
Gli strumenti disponibili oggi consentono di spingersi ancora oltre. Di passare dalle modificazioni per così dire macro a quelle micro a livello non solo di aree cerebrali ma a livello cellulare e molecolare. In questo senso gli studi sono limitati, ma costituiscono una prospettiva stimolante. Ad oggi solo un paio di studi Finlandesi hanno affrontato lo studio della modifica di flussi di molecole a livello sinaptico dopo il trattamento psicoterapico, dando risultati interessanti (ad esempio registrando modifiche nei circuiti serotoninergici) ma non definitivi per alcun limiti metodologici delle ricerche.
La ricerca neurobiologica può quindi:
- fornire la possibilità di avere una più compiuta visione di come differenti tipi di terapia siano efficaci per differenti tipi di disturbi potendo quindi indirizzare tali disturbi a trattamenti di prima scelta basati su specifici modelli e tecniche terapeutiche di provata efficacia
- contribuire a ridefinire alcuni dei modelli di cambiamento insiti nelle teorie psicologiche alla base di ciascun modello di terapia
A buon diritto costituisce quindi uno degli strumenti per la costruzione di un panorama terapeutico evidence based.
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