L’attività di ricerca degli ultimi dieci anni ha portato al riconoscimento dell’hoarding disorder (disturbo di accumulo – a volte descritto anche come Disposofobia, Sillogomania, Accaparramento Compulsivo, Accumulo Patologico, Mentalità Messie, Sindrome di Collyer) nel DSM-V che uscirà nella primavera del 2013 determinando possibilità di diagnosi più chiare e facilità di comunicazione tra i clinici. Anche nella conoscenza comune si è fatta strada una consapevolezza nuova circa la natura clinica del fenomeno, superando atteggiamenti riduttivi o colpevolizzanti. Ciò ha portato ad una crescente domanda di trattamento per i soggetti con questo tipo di problema accompagnato dalla necessità di sostegno ai familiari spesso esasperati da anni di frustrazioni e tensioni. Quello che prima era “il segreto di famiglia” comincia ad acquisire una dignità di “disturbo” riducendo la vergogna e permettendo l’accesso alla terapia.
Per la mia esperienza il problema presenta un alto livello di complessità per il suo carattere multidimensionale.
Tipicamente l’intervento viene richiesto dai familiari, esasperati da situazioni che si trascinano in modo ingravescente a volte da venti o trenta anni. Il motivo della richiesta non è spesso di natura accudente quanto piuttosto di urgenza (conflittualità con i vicini, situazione finanziaria deteriorata, necessità di traslochi o ristrutturazioni ai quali i pazienti si oppongono, ecc.). Si verifica cioè una situazione contingente, a volte anche determinata da patologie co-occorrenti che “costringe” i familiari (spesso i figli) a chiedere aiuto.
Va considerato che questi hanno spesso subito una forma di “Hoarding Passivo” a partire dalla prima infanzia, sono cioè cresciuti loro malgrado in un ambiente inadatto al normale svolgimento di una vita di sociale. Si aggiunga che probabilmente numerosi sono già stati i tentativi, le proposte, gli sforzi per risolvere il problema già messi in campo negli anni e sistematicamente frustrati. E’ comprensibile come le emozioni riportate dai familiari siano spesso di rabbia, risentimento, tristezza, imbarazzo e frustrazione. Una prima e basilare direttrice di intervento è quindi quella indiretta indirizzata cioè a fornire ai familiari (soprattutto se figli) un supporto psicologico (approfondito a seconda delle necessità espresse) accompagnato da interventi psico-educazionali sulla natura del disturbo e la sua componente genetica e neurobiologica, che in qualche modo possa ristrutturare l’immagine fortemente negativa dell’hoarder che si è generalmente instaurata in seno alla famiglia (ad esempio come colui che ha sempre preferito i propri oggetti ai propri familiari). Questo primo passo è necessario oltre che per alleviare la sofferenza personale del familiare, per lo stabilirsi di un terreno relazionale adatto sul quale si potrà poi costruire, se la persona lo permetterà, l’intervento diretto.
Sempre per la mia esperienza l’intervento diretto prevede vari ordini di difficoltà:
1/ Il paziente (soprattutto se maschio) rifiuta persino di prendere in considerazione l’idea di trattamento in quanto tale ipotesi gli fa intravedere la possibilità che le sue cose saranno spostate, toccate o peggio eliminate da qualcuno “non in grado di farlo”. Il paziente spesso ha un’istruzione, un livello intellettuale ed un funzionamento cognitivo in altre aree sopra la media che non gli consentono di rispecchiarsi nel ruolo di “colui che ha un problema”. Il clima emotivo è quello di vergogna/rabbia/isolamento che porta il paziente in alcuni casi a negare che esista una difficoltà.
2/ Dal momento che il sintomo agisce in uno spazio fisico (la casa del paziente) non è possibile limitare gli interventi alla pratica in studio. Ciò comporta la necessita sia in fase di assessment sia durante la terapia di recarsi a casa del paziente per:
- ottenere una migliore comprensione della gravità e dello stile di accaparramento
- definire il piano di trattamento più adatto al caso particolare
- desensibilizzare i pazienti all’accesso a casa propria da parte di visitatori
3/ Il funzionamento sociale e lavorativo è spesso compromesso e le risorse a disposizione sono a volte limitate.
4/ L’intervento va spesso agito in équipe. A fianco dello psicoterapeuta che ha in carico il caso, è talvota necessaria la figura di uno psichiatra e di un medico che curi gli aspetti di medicina generale. In fasi mature della terapia può inoltre essere necessario un “aiuto organizzativo”. A questo proposito in Italia, sul modello statunitense e nordeuropeo, si è recentemente affermata la figura dell’organizzatore professionale che se opportunamente formata può rappresentare una buona risorsa in questo senso (NB: l’organizzazione lenta e progressiva dei beni non può essere delegata a chi non abbia profonda comprensione del lavoro terapeutico parallelamente in atto). Per i casi più estremi di hoarding di animali (cani, gatti) sono necessarie ulteriori figure in grado di salvaguardare anche la salute degli animali custoditi e di valutare le condizioni igienico sanitarie generali.
5/ Non tutti i terapeuti sono adatti al trattamento di questo disturbo per l’alto grado di frustrazione che comporta. Gli hoarders manifestano spesso bassa motivazione, bassi livelli di compliance, alto tasso di drop–out, iniziale scarsa risposta al trattamento.
In merito al comportamento di Hoarding gli ambienti di vita vanno visitati insieme al paziente per valutare l’entità del fenomeno, l’eventuale pericolosità degli stessi, i beliefs patogeni relativi all’accumulo, i deficit di information processing, le capacità di decison making e di organizzazione, i comportamenti di evitamento messi in atto, il funzionamento generale giornaliero, il grado di insight sul problema, la motivazione al trattamento, il funzionamento sociale e lavorativo, la rete di relazioni disponibile, eventualmente lo stile di compliance farmacologica.
Gli interventi farmacologici in genere indirizzano una delle patologie co-occorrenti o il sottotipo ossessivo compulsivo, non direttamente il disturbo di hoarding. E’ stato testato con relativo successo in casi di OCD + Hoarding l’uso di SSRI (paroxetina, fluoxetina, fluvoxamina, sertralina, ecc.) ed in particolare la paroxetina, indicata nelle linee guida della FDA. Per i casi di Hoarding “puro” la loro efficacia è ridotta.
Gli interventi psicoterapeutici:
1/ La tipologia di intervento più efficace in base ai dati di outcome al momento disponibile è una forma di Terapia cognitivo-comportamentale (CBT) adattata allo specifico problema dell’hoarding (Steketee & Frost 2010) che prevede visite a domicilio e homework tra una seduta e l’altra.
Obiettivi della terapia che si dispiega ricordiamo anche a domicilio sono
- comprensione dei beliefs che governano l’accumulo
- sviluppo di skills organizzativi (cosa tenere, come organizzarlo, cosa eliminare)
- sviluppo di skills decisionali
- acquisizione di metodologie di rilassamento
- sviluppo di skills di controlllo degli impulsi (se presente acquisizione eccessiva)
- attivazione di occasioni sociali
- prevenzione delle ricadute
Queste modalità di trattamento di solito comportano l’applicazione della tecnica di esposizione e prevenzione della risposta applicata a situazioni che provocano ansia e la ristrutturazione cognitiva delle credenze relative all’accumulo. Gli hoarders hanno spesso pensieri, convinzioni e valori disadattivi che contribuiscono al mantenimento del problema. Tanto per fare un esempio possono pensare di dover pulire e organizzare la cucina “perfettamente”. Questo “progetto” implica una tale complessità teorica da renderlo praticamente irrealizzabile al punto da non poterlo neanche iniziare. Vi è una sopraffazione da parte della stessa ideazione perfezionistica. Evitando il compito, evitano anche le emozioni spiacevoli, di ansia ed overwhelming, l’accumulo continua generando un rinforzo negativo. Obiettivo iniziale della terapia è l’individuazione di questi schemi di pensiero alla base del mantenimento del disturbo.
2/ Alcuni tentativi sono stati anche fatti con approcci terapeutici mutuati dalla terapia delle dipendenze
- Colloquio motivazionale: si è dimostrato utile in casi di hoarding in cui l’insight è basso e la spinta al cambiamento è ambivalente
- Approccio di riduzione del danno: l’obiettivo è quello di ridurre le conseguenze dannose del comportamento, piuttosto che i comportamenti di accaparramento
- Terapia di gruppo: mira a ridurre l’isolamento sociale e l’ansia sociale (cost-effective rispetto alla terapia personale)
Attualmente c’è un grande interesse mediatico sul disturbo di Hoarding ma in realtà ne coglie gli aspetti più superficiali, ovvero il grande accumulo di “roba” che rende invivibili gli ambienti e l’attaccamento estremo a cose di nessun valore oggettivo. Tuttavia, questo quadro è ben lungi dal cogliere la profondità della sofferenza e delle difficoltà tipiche di queste persone. Contrariamente all’opinione comune gli hoarders non sono semplicemente “pigri” o “eccentrici”, possiamo parlare invece di una costellazione di problemi complessi che va affrontata su molti fronti in una modalità di trattamento integrata. Il semplice intervento di “rimozione” operato da parenti, imprese di pulizie, ecc. non risolve mai il problema e comporta oltre a grande sofferenza soggettiva per la persona un forte rischio iatrogeno rispetto ad altri disturbi che possono insorgere (depressione, panico, fino all’ideazione suicidaria).
Il desiderio di cambiamento negli hoarder, seppur celato sotto l’apparente negazione del problema, in realtà esiste ed è possibile come risultato, anche se il percorso è complesso e va ritagliato caso per caso identificando possibili direzioni accettabili per la persona, riducendo la vergogna e giustificando l’aiuto. Ai familiari di una persona con condotte di accumulo il consiglio è di informarsi sulla natura del disturbo sulle sue cause e sui suoi trattamenti (attraverso la lettura di materiale scientifico divulgativo o partecipando ad incontri psico-educativi specifici per familiari di disposofobici) in modo da evitare gli errori tipici della dinamiche che si instaurano con le persone che vorrebbero aiutare.
Alessandro Marcengo [amarcengo@psicoterapie.pro]
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